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La fiancata sinistra dell’autobus divora la linea di mezzeria della strada come se fosse un Pac-Man. Il rombo del motore tossicchia sotto le suole delle mie scarpe. Il sole è calato dietro le montagne, ormai, e la luce è poca e, allora, l’autista, un tizio scorbutico di mezza età, ha dovuto accendere le luci. Luci che feriscono l’aria nebbiosa di queste parti.
A un certo punto, un’insegna sfreccia fuori dal finestrino alla mia destra. L’ho letta a malapena:
Benvenuti a Black Mountain.
3.396 abitanti.
Il legno cadente, i colori sbiaditi. Chissà da quanto non l’aggiornano.
L’autista fa capolino: «Black Mountain! Siamo a Black Mountain». Fa per rivolgersi a me attraverso lo specchietto interno: «Ehi, tu! Sei stata tu a chiedermi di avvisarti, no?»
Annuisco istintivamente, anche se probabilmente non può vedermi. «Sì. Grazie mille!».
«Ti avviso che la fermata è fuori città. Dovrai camminare un po’ per arrivare al centro abitato. Non so perché l’abbiano messa così fuori…»
Ringrazio di nuovo, distrattamente.
Scendo dal predellino, mentre le luci rosse dell’autobus si allontanano e spariscono dietro una curva. Sento la fredda umidità dell’asfalto crepato sotto i miei piedi.
E, quindi, eccoci qua! Di nuovo a Black Mountain, come ai bei vecchi tempi.
Prendo la strada che va verso il paese col peso della mia sacca da viaggio sulle spalle come unico compagno. Il freddo serale dei boschi mi entra sotto la giacca di pelle lisa. Abituata com’ero al clima temperato della costa, non ricordavo più che qui, sulle montagne, facesse così freddo. Dovrò rifarci l’abitudine, a quanto pare.
Cammino da un sacco, ormai. Se dicessi che non ho le gambe stanche, mentirei. Del paese, ancora nessuna traccia. La memoria potrebbe aiutarmi a capire quanto manca, ma si sa che, di notte, tutti gli spazi appaiono dilatati. La paura del buio ci contraddistingue, come umanità, e io, ora, so che quella paura non è senza motivo.
Sento dietro di me il motore di un pick-up. Chissà se saranno così gentili da darmi un passaggio. Mentre si avvicina, leggo la scritta su di esso:
Dipartimento dello sceriffo di Black Mountain.
Il veicolo accosta, il finestrino si abbassa e io mi sento, ancora una volta, fottuta. Dannatamente fottuta.
«Buonasera, signorina (?). È scuro… posso aiutarla in qualche modo? Sta andando in paese?»
Vedo la sua stella di metallo attraverso il finestrino abbassato. «Buonasera, sceriffo…»
«Vicesceriffo» mi corregge.
«Vicesceriffo» ripeto, svogliata. «Sì, sto andando a Black Mountain… vengo dalla fermata dell’autobus».
«C’è ancora un bel pezzo a piedi, sa? Se sale con me, le do un passaggio».
«Volentieri. Molto gentile». Sono convinta che si sia messo a fissarmi le tette, ma meglio non dare nell’occhio.
Le curve e le salite nascondono le luci della città. Nel frattempo, in cielo, cominciano a vedersi le stelle. I posti isolati sono stupendi: le luci della civiltà non cancellano lo spettacolo degli astri.
«Non sembra di qui. Da dove viene?»
«Dalla costa. Ho una vecchia casa qui. Era di mia nonna».
«Di sua nonna… Qui il posto è piccolo: conosco un po’ tutti. Com’è che si chiama lei?»
Titubo. «Faith West». La mia voce è un sussurro.
«Faith West!» si gira verso di me con gli occhi accesi. «Non ci posso credere!»
Lo guardo interrogativa.
«Non ti ricordi di me? Sono Terence Gray! Sir Tristram: giocavamo sempre, da piccoli, nel bosco. Quanti anni saranno passati?»
«Terry?!» Non posso vedermi, ma un sorriso si è dipinto sul mio volto; ne sono sicura.
«Be’, è un piacere rivederti dopo tutto questo tempo. Mi dispiace molto per tua nonna: manca molto a tutti, sai? Pensi di fermarti qui a lungo?»
Nel frattempo, siamo arrivati a Black Mountain. Il paesino è piccolo, isolato, poco illuminato e, francamente, un po’ spettrale, con la nebbia, le montagne e tutti quei boschi attorno.
«Non lo so ancora, di preciso, ma penso che rimarrò per un po’».
«Fantastico! Dove ti porto, allora? Alla casa della nonna?»
«Sì, saresti molto gentile. Grazie».
Apro la portiera. Sollevo la mia sacca da viaggio dallo zerbino del pick-up. La casa della nonna è vecchia, fatiscente, piena di rampicanti. Faccio per aprire il cancello di ferro ossidato: le mie mani si sporcano di bruno rossastro.
«Senti, Faith… la casa è molto messa male. Se uno di questi giorni, insomma… se hai bisogno di una mano per sistemarla, non esitare a chiamarmi».
«Sei molto gentile, Terry…»
«Nessuno mi chiama più Terry…» commenta imbarazzato.
«Sei molto gentile. Se dovessi avere bisogno di una mano, ti farò sapere». Ma no: non lo chiamerò. Non posso fidarmi di lui; non posso fidarmi di nessuno. Entro nella casa buia e già sento odore di chiuso, di morte e di solitudine. È perfetta per me.
Le mani mi si spalmano addosso. Escono dalle ombre, escono dappertutto. Mi tengono per le braccia, per le gambe, per il corpo. Mi premono sul volto, mi chiudono gli occhi, mi tappano la bocca. Non respiro! Non respiro!
Ci sono tutte ombre intorno a me e mi sussurrano sempre la stessa cosa: “Non sono vivi”. Un uomo sta in piedi, la sua testa viene staccata di netto dal corpo. Un’ascia da pompiere cade per terra con un rumore sordo: il suo smalto rosso viene consumato come da un fuoco interno. Il metallo si ossida, si consuma, svanisce. La stanza intorno odora di cherosene, prende fuoco. Tutto brucia.
Di nuovo quella voce nella mia testa: “Non sono vivi”. Mi sveglio di soprassalto, tra le lenzuola impolverate, e ora anche madide del mio sudore. Respiro con affanno: sono in preda al panico; ho il cuore in gola, i capelli spettinati davanti agli occhi.
Ci metto qualche secondo a rendermi conto di dove sono. Sono nella vecchia camera da letto di mia nonna. Non c’è nessuno, a parte me. Ho arrangiato un letto al volo e mi sono messa a dormire, dopo una cena di fortuna. E poi gli incubi, sempre gli stessi incubi.
Sento quelle voci, che troppo spesso mi vengono a visitare sia da sveglia che da addormentata. Sono loro che mi fanno vedere i mostri e, sì, so cosa state pensando: state pensando che sono pazza. Dio solo sa se non l’ho pensato anch’io, all’inizio, ma ho capito da tempo che non è così. Anzi, vi assicuro che non sono mai stata così lucida. Ho sfiorato e toccato la verità e ora so che, ahimè, nel nostro mondo i mostri esistono eccome.
Ho cercato informazioni su quello che mi stava accadendo su internet e ho trovato altri che dicevano di avere avuto la mia stessa esperienza. Un attimo prima, la vita era noiosa come lo è per tutti. Un attimo dopo, quelle strane voci, o quelle visioni, e una rivelazione assoluta: dagli angoli ombrosi della nostra realtà, quelle che ci erano sempre sembrate anomalie e superstizioni, hanno tolto la loro maschera. I mostri sono tra noi, e dissimulano la loro presenza per continuare a sfruttare e dominare l’umanità per i loro biechi fini.
Li chiamano “Messaggeri”. Le voci, dico. E sono stati loro a dirmi di venire qui. La grande città non era più sicura per me. Loro mi danno gli incubi, ma mi proteggono sempre.
Dalle scale del piano di sotto, sento riecheggiare i rintocchi del vecchio orologio a torre. Quando sono entrata, è stata la prima cosa su cui ho messo le mani: l’ho caricato, quasi per istinto, come facevo da bambina, come mi aveva insegnato la nonna. Adesso sì che sono in una casa stregata.
Rimetto la mia testa sul cuscino e guardo l’aria mortifera del corridoio davanti alla camera da letto. Quelle ombre sembrano quasi prendere vita, ma io sono troppo stanca e, non so bene quando, riesco a prendere di nuovo sonno.
Terence Gray si pulisce le mani sporche con un vecchio strofinaccio e si siede al tavolo della cucina: «E, con questo, dovremmo avere finito».
All’inizio del fine settimana, si è presentato alla porta di casa, sebbene io non l’avessi chiamato, e mi ha dato una mano a sistemare tutto.
Ora la sua espressione cambia repentinamente: «Faith, c’è una cosa della quale dobbiamo parlare…»
Alzo gli occhi dalla vecchia teiera con l’esterno annerito dalla fiamma. Ha la mia attenzione.
«Ascolta, lo sceriffo mi ha fatto fare delle ricerche su di te… Minacce, assalto a mano armata, lavori sociali… Si può sapere che cazzo è successo nel tuo passato?»
Alzo gli occhi al cielo. Dovevo immaginare che sarebbe successo. «Senti, Terry… sinceramente, non sono affari tuoi».
«Sono affari miei dal momento che lo sceriffo mi ha chiesto di tenerti d’occhio e di non lasciarmi influenzare dai miei sentimenti per te».
La mia espressione diventa dura. Sono stata tradita; di nuovo. «Quindi è per questo che sei venuto qui? Per sorvegliarmi?!»
«No, ti sbagli. Sono venuto qui perché eri mia amica, e perché volevo delle risposte da te».
«Eccoti le mie risposte». Gli alzo il dito medio in faccia. Indico la porta col braccio disteso, imperativa: «Fuori dalla mia cazzo di casa! Subito!»
Dalla sua espressione, ne sono certa, è ferito come un cane preso a calci. Qualcosa dentro di me muore, ma sono troppo incazzata per cedere ai sentimentalismi.
Il vicesceriffo Terence Gray si alza dalla sedia, si volta ed esce dalla porta di casa con dignità, chiudendola in maniera composta ed educata, nonostante tutto.
Il suo pick-up parte e io sento la voce dei Messaggeri nella mia testa: “Seguilo”.
La teiera comincia a fischiare.
Copyleft (ɔ) 2020-2024 Daniele Di Rubbo. Alcuni diritti riservati.
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Il badile ferisce la terra umida, che sa di marcio, del cimitero di Black Mountain. È uno di quei tipici cimiteri di provincia americani o, meglio, uno di quei tipici cimiteri di provincia americani, come vengono descritti nei romanzetti pulp. Lapidi rovinate a forma di croce celtica coperte di muschi e licheni, alberi spogli, nebbia che sale dal terreno…
La mia giornata è passata velocemente. Lo stesso non si può dire per Terry: dalle sue occhiaie, è chiaro che non abbia dormito per niente. Non gliene posso fare una colpa: ricordo che accadde anche a me, dopo la mia infusione.
«Fammi capire, Faith» dice Terry, affannato dallo scavare «i cacciatori di mostri “lavorano” solo di notte?»
«Per niente» rispondo io. «È solo che, di notte, si dà molto meno nell’occhio».
«Specie quando si profanano le sepolture di un cimitero».
Il badile sbatte con un rumore sordo contro il legno della bara. Terry mostra un sorriso sbilenco. Non lo dà a vedere, ma è stanco.
«Ti do il cambio».
«No. Faccio da solo».
«Sentilo! Smettila con questa manifestazione di mascolinità tossica. Ti do il cambio. Non era una domanda».
Non è un gioco da ragazzi aprire una bara, ai giorni nostri. Il coperchio è saldato e, per rimuoverlo, occorre tagliare col flessibile e fare molta forza col piede di porco.
La bara di Jake Ferrell si apre. Al suo interno, non c’è nessun cadavere. Terry sbianca.
«Cos’è? Ti stupisce davvero?»
Scuote la testa lentamente. Fa sempre uno strano effetto quando la realtà si conferma essere quella che temevamo fosse solo la nostra pazzia. Da una parte, rincuora; dall’altra, spaventa.
Mi guardo intorno. Fisso le altre lapidi. «Terry… questo cimitero non viene usato spesso, vero?»
Terry ci pensa un po’ sopra, poi sovviene: «No, ora che mi ci fai pensare. Ma come lo sai?»
«Le lapidi. Sono tutte incrostate di muschi e licheni. Sono qui da molto, a parte quella di Jake Ferrell. Non ti sembra strano che il cimitero non venga usato così spesso?»
Il vicesceriffo tace.
«Com’è morto Jake Ferrell?» gli chiedo.
«Lavorava come carpentiere alla fiera di paese. È stata una disgrazia: non aveva messo l’imbragatura di sicurezza; è caduto da una grande altezza…»
«… durante la fiera» completo la frase.
«Come lo sai?» mi chiede. Ma poi cambia espressione, come se avesse realizzato qualcosa. «Jake è morto davanti a tutti! Non era possibile in nessun modo occultare la sua morte».
Erano parecchi anni che non mettevo piede nella casa della famiglia Gray. Quando ero piccola, mi sembrava una reggia enorme: la favoleggiata Camelot, dove re Artù, il nonno di Terence, era sempre pronto a dare una missione a sir Tristram e lady Florence.
Ora la casa mi sembra comunque grossa, ma solo perché Terry ci vive da solo. La televisione a schermo piatto accesa, il controller della console in mano, le lattine di birra da discount – vuote e piene – sparse attorno, noi due sul tappeto con la schiena appoggiata alla base del divano.
I giochi dei piccoli hanno lasciato spazio ai giochi dei grandi. Sir Tristram è diventato Terry, lady Florence è diventata Faith. La nostra immaginazione è stata concretizzata nel flusso di bit che crea poligoni e texture. La nostra immaginazione è morta, così come la nostra innocenza. Ora esistono solo Terry e Faith, i cacciatori.
Come due fidanzatini passivo-aggressivi, giochiamo insieme ai giochi elettronici per fare la pace dopo aver litigato. Sento l’alcol di scarsa qualità in circolo nel mio sangue: non è sufficiente a mettermi fuori gioco, ma mi alleggerisce lo spirito. Non mi fa pensare ai miei problemi, alle mie paure, a quello che dovremmo fare.
Mi giro per guardarlo. È assorto nel gioco: i suoi occhi scuri guardano lo schermo, che ci proietta addosso onde azzurre che inibiscono il sonno. Guardo le sue labbra carnose che si muovono nervose per la difficoltà del livello.
Ho voglia di fare l’amore. Mi sporgo verso di lui. Gli metto una mano sotto la camicia, disordinatamente uscita dai pantaloni. Accarezzo la sua pelle d’ebano sotto di essa.
Terry si blocca, col controller in mano. Mette in pausa il gioco. I suoi occhi nei miei. Si sporge verso di me, attratto come da un magnete. Mi regge il gioco fino in fondo.
Mentre le nostre labbra si congiungono e le nostre bocche si esplorano, le mie mani cominciano a sbottonargli la camicia, a togliergli l’intimo, e sento che lui fa altrettanto con me.
È un grido disperato alla vita, il nostro. Siamo un’opera d’arte d’avorio ed ebano congiunti dalla sapiente mano dell’artigiano. Intoniamo così un rituale antico come il mondo: un talismano contro la morte. Gridiamo la nostra esistenza all’umanità, mentre i demoni della notte si dispongono intorno a noi come animali spaventati dal fuoco eterno.
La viottola per uscire dal cimitero ha i sassolini sparsi in malo modo. Ogni tanto è interrotta dalla nuda terra o da qualche cespuglietto d’erba che si è guadagnato a forza il diritto di esistere. Si ode il vento notturno spirare, e si sente nelle ossa. Il giubbotto di pelle non difende da quel freddo.
A un certo punto, la strada si biforca: sulla sinistra si va verso l’uscita; ma Terry si ferma sul bivio, come attratto da una forza invisibile, e si volta verso destra. Resta lì, fermo, come incantato.
Me ne accorgo. Mi giro su me stessa: «Ehi, Terry! Che ti prende?»
Alza la mano e indica verso la direzione proibita. «Laggiù è sepolta tua nonna Kaitlynn… Non vuoi andare a controllare se…?»
«Andiamocene di qua!» sbotto.
Terry mi guarda con occhi sgranati. Devo aver reagito in maniera eccessiva.
«Lascia fuori mia nonna da questa storia».
«Ma lei potrebbe… Davvero non vuoi saperlo?»
È da diversi minuti che me lo sto chiedendo, che lo sto tenendo per me. È un fantasma che mi ronza nella testa, che mi fa impazzire, che mi fa bollire il sangue nelle vene. Certe cose è meglio non saperle. Non voglio sapere se il corpo di nonna Kaitlynn riposa ancora nella sua tomba.
«Se davvero ci tieni tanto, perché non andiamo a riesumare i tuoi di cari?» È un colpo basso, anche per i miei standard.
Gli occhi di Terry mi schiaffeggiano, mi rimproverano. «Dopo che mamma è andata in pensione, si sono trasferiti in Florida. I medici dicevano che era meglio per l’artrite del nonno. Se fossero qui, io vorrei saperlo…»
Terry mi passa accanto, quasi urtandomi. Non dice niente, ma il suo sguardo è sufficiente. Codarda. Sono una codarda.
Quando raggiungo l’uscita, sta già mettendo in moto il pick-up.
La catena arrugginita della bici guaisce, come un cane ferito, ad ogni pedalata. Come se non bastasse, rischia continuamente di cadere e devo stare attenta a ogni curva, a ogni frenata, a ogni disconnessione dell’asfalto.
Sbuco fuori dalla curva e sono nel pieno del centro abitato. Il pick-up di Terence Gray blocca metà carreggiata, come in una specie di parcheggio di fortuna. La portiera è aperta.
Terence è sceso a prestare soccorso a una donna sulla trentina caduta a terra, con i capelli scarmigliati, un’espressione di dolore sul volto e le mani ad accarezzare il cuoio capelluto. Ha delle ciocche di capelli incastrati tra le dita, come se qualcuno glieli avesse strappati.
Terry non sta guardando la donna, però. È accovacciato lì per terra – vicino a lei, sì – ma sta fissando la figura minacciosa di un uomo dall’altra parte del pick-up. Il vicesceriffo è spaventato: posso percepirlo. La sua mano tremante si allunga verso la fondina del revolver d’ordinanza: tenta di sbottonarla per prenderlo.
C’è qualcosa che non va. L’uomo misterioso incombe sulla scena: i capelli sporchi a coprirgli il volto, dal quale sembrano provenire ringhi di rabbia ferina; le mani lungo i fianchi con le dita allargate, quasi a scimmiottare degli artigli. Vuole avvicinarsi: lo sento. Eppure, non ci riesce: è bloccato come da un campo invisibile.
Una sensazione mi punge dietro la nuca e io trovo dentro di me la forza necessaria per aprire gli occhi. Non dico letteralmente; dico per guardare il mondo con la “Seconda Vista”. È così che la chiamano alcuni: la capacità di discernere i mostri. Un attimo prima, è tutto a posto; un attimo dopo, i lupi in mezzo al gregge calano la maschera, e noi possiamo vederli per quello che sono.
E, anche questa volta, non mi sbagliavo. Ora, l’uomo appare come un cadavere in putrefazione, ai miei occhi. Non è la prima volta che vedo uno di questi “cosi”. So quello che devo fare! Rapida, prendo la sacca sulle mie spalle e frugo per afferrare il machete da giardino, lo estraggo e corro verso il cadavere che cammina.
Adesso ho la sua attenzione. Mentre Terry litiga ancora con la fondina della pistola, io calo un fendente verso la testa della cosa morta: sento una sensazione di formicolio, una scossa che percorre il mio braccio. La lama del machete viene percorsa da un’energia che rende la sua anima incandescente, che fa bruciare il metallo con fiamme prorompenti.
La creatura è rapidissima: si abbassa, schivando il mio colpo. Si vede messa a malpartito: Terry ha preso la pistola e gliela sta puntando. L’uomo si volta, corre via: è troppo veloce! Non riesco a stargli dietro e scompare in lontananza, sfruttando la copertura della foresta.
Mi giro verso Terry, vagamente scocciata: «Perché cazzo non gli hai sparato?»
«H-ho la p-pistola scarica» balbetta. «Qui non siamo a Los Angeles» dice, quasi a giustificarsi.
Il mio machete cade a terra, completamente consumato da quel fuoco interiore. Persino il manico è ridotto a un moncherino inservibile.
Terry mi guarda tra lo stupito, l’incredulo e lo spaventato.
«È rimasto qualche ferramenta in città?» gli chiedo.
Sono seduta in maniera completamente scomposta su una vecchia sedia a muro della sede dello sceriffo. La mia schiena poggia tra la base e lo schienale; le mie gambe, proiettate in avanti, occupano il corridoio quasi per metà.
Terry esce dall’ufficio dello sceriffo in maniera brusca, quasi sbattendo la porta. Sembra scocciato.
Lo guardo interrogativa. «Allora?»
«Lo sceriffo ha detto che dobbiamo andare a casa, che compilerà lui i documenti della signora Ferrell».
Il viaggio in macchina è particolarmente quieto. A un certo punto, Terry rompe il silenzio: «Tutto questo non ha senso… Faith, io sono stato al funerale di Jake!»
«Eppure stasera l’hai visto camminare e aggredire sua moglie. Lo hai detto allo sceriffo?»
«E come avrei potuto? Nemmeno Harriet sembrava prendere sul serio la possibilità che fosse stato proprio lui ad aggredirla…»
Faccio silenzio. Conosco bene questa dinamica: la maggior parte delle persone razionalizza l’esistenza dei mostri, al punto di negare anche gli avvenimenti che li coinvolgono. È per questo che la gente non crede alla loro esistenza. All’inizio, mi arrabbiavo molto. Poi, ho capito: c’è qualcosa, nelle menti degli uomini, che li protegge, che gli fa dimenticare, che gli fa distorcere la realtà. Non posso prendermela con loro: devo difenderli, anche se pensano di non averne bisogno.
«Tu, però, sei stato al funerale di Jake… Voglio dire: tu sai che lui era morto. Eppure lo hai visto, stasera».
«Sì. Com’è possibile…?» mi chiede.
So riconoscere una cazzo di infusione, quando ne vedo una. Ok, è un nome del cazzo, ma rende l’idea. È quando i Messaggeri rivelano per la prima volta a una persona che i mostri esistono, e glieli fanno vedere. È quello che è successo a Terry. È successo anche a me, tempo fa. Ed eccoci qui.
Terry si volta verso di me con una nuova consapevolezza. «È questo che ti è successo, non è vero? È per questo che hai lasciato Los Angeles?»
Annuisco. Vale più di mille parole.
Il pick-up arriva davanti a casa di mia nonna. Scendo, tiro giù la bici dal cassone.
«E adesso che si fa?» chiede Terry.
«Non è ovvio?» gli rispondo. «Adesso dormiamo. Domani, invece, si va a caccia».
I suoni della foresta di notte mi rendono tesa come una corda di violino. Chi pensa che Los Angeles sia rumorosa, dovrebbe passare la notte appostata in una foresta del Nordovest, ve lo dico io.
Ma forse è solo una questione di prospettive: forse è solo che le orecchie, abituatesi come sono al silenzio, cominciano a percepire tutti i rumori di sottofondo che il nostro cervello, normalmente, filtra. Forse hanno semplicemente ragione quelli che dicono che Los Angeles è una città del cazzo, invivibile. Ripensandoci, hanno dannatamente ragione loro.
Dopo aver lasciato la pompa di benzina, sono passata da casa della nonna. Ho recuperato la sacca con dentro l’“equipaggiamento da cacciatrice”. Sono tornata al distributore, ho attivato la mia Seconda Vista e l’ho trovata lì, davanti a me: la pista lasciata da Jake Ferrell. Una specie di scia di fumo vagamente virata verso il cremisi. È il mio segno distintivo: è così che riesco a seguire i mostri, a dargli la caccia.
Ho seguito la traccia a piedi. Lungo la strada asfaltata, poi nello sterrato, fino a ritrovare il suo furgone parcheggiato nella natura selvaggia. Ho camminato nel fitto del bosco per un altro po’, ed eccomi qui: davanti alla catapecchia che Ferrell dovrebbe chiamare casa.
Con l’oscurità, dalla stamberga ha cominciato anche a venire un filo di luce. Suoni: nessuno. Il che non fa che aumentare la mia inquietudine. Gli unici rumori che sento sono quelli della foresta, assillanti e irreprimibili.
A un certo punto, comincio a sentire un prurito alla base della nuca, come se ci fosse qualcosa fuori posto. E poi la sento, sempre la loro voce, quella dei Messaggeri: Dietro di te! Mi giro d’istinto e, nonostante sia buio pesto, lo vedo: la sua figura torreggia su di me. Quei capelli lunghi e unti, quel ghigno malefico, quei vestiti che pregano di essere gettati un una lavatrice, quegli occhi iniettati di sangue.
La sua mano scatta verso di me all’improvviso. Sento un rumore tagliente e poi una sensazione di caldo umido nel mio ventre. Ho appena il tempo per abbassare i miei occhi e comincio a sentire un grande freddo. Vedo la sua mano artigliata che entra dentro di me. Un lago di sangue si allarga sulla mia maglietta violata. Le gambe mi tremano e mi cedono. Ora sono per terra con un rumore sordo e i miei occhi, stanchi e morituri, cominciano a chiudersi per il peso delle palpebre.
Sentiste che silenzio c’è ora.
Mi sveglio per i terrori notturni tra le coperte stropicciate. Ho un po’ di fiatone che, però, mi passa presto.
C’è Terry accanto a me, che dorme come un angioletto. Passo la mia mano tra i suoi capelli cortissimi e crespi. Terry è un brav’uomo: non si merita quello che gli sto facendo. Avevo bisogno di lui e l’ho usato.
Mi alzo per cominciare a rivestirmi. Nonostante la furtività dei miei movimenti, Terry si sveglia, apre gli occhi, mi guarda.
«Te ne vai nel cuore della notte, come una ladra?»
«Terry, io…»
«Faith, ti conosco come le mie tasche. Quelli come te hanno paura di affezionarsi alle persone».
Gli lancio saette con gli occhi.
Indica la cicatrice sulla mia pancia nuda. «Quello è un segno d’arma da fuoco. Come te lo sei procurato?»
Mi risiedo sul letto, di spalle. I miei capelli scivolano sulla schiena. Sento le mani di Terry che mi lisciano il foro di uscita del proiettile. Non so neanch’io perché, inizio a parlare: «Quando ero in città, avevo conosciuto un ragazzo all’accademia d’arte. Si chiamava Carlos: sembrava a posto. Quello che non sapevo era che fosse fino al collo in un giro di spaccio. Un bel giorno, ce ne stavamo per i fatti nostri, quando arrivano questi tizi e sparano a tutti. È stato un massacro… Più tardi ho saputo che era per una questione di territorio. Carlos non ce l’ha fatta. Io mi sono beccata questa: una ferita pulita. Sono stata fortunata».
«Faith… mi dispiace». Ha gli occhi lucidi. Anche io, ma l’oscurità della stanza cela la mia debolezza. «Adesso capisco molte cose…»
«Capisci… cosa?» lo incalzo.
Proprio in quel momento, suona il campanello. Mi giro verso di lui, allarmata. Terry salta all’improvviso in piedi, va alla finestra, guarda attraverso la persiana.
«È lo sceriffo!» dice, sorpreso e un po’ inquieto. «Aspetta qui. Non farti vedere uscire».
Mentre Terry scende per aprire, io mi rivesto, veloce come un lampo, e mi apposto in cima alle scale. Il mio respiro si annulla, mentre sento una doppia serie di passi entrare in casa.
Dal piano di sotto riecheggia la voce di Terry, ovattata per la distanza e ancora parzialmente assonnata: «Sceriffo… ho dimenticato qualcosa? Avevo il turno di mattina?»
Risponde una voce femminile e profonda: è quella dello sceriffo Talia Hester, il capo di Terence. «Credevo di essere stata chiare con te, Gray! Ti avevo detto di tenere d’occhio la signorina West, non di fraternizzare con lei. Che intenzioni hai? Vuoi portartela a letto?»
Un brivido corre lungo la mia schiena.
«Abbia pazienza, sceriffo…» risponde Terry, sulla difensiva.
«Ah, ne ho avuta molta con te, Gray! Ricordati che ti ho aiutato e ti ho voluto bene. Quando non avevi un lavoro, te ne ho dato uno. E lo sai come la gente di provincia si sente quando ha per sceriffo una donna di origini asiatiche e un vicesceriffo afroamericano… Non dare per scontato quello che hai, e la mia fiducia».
Bastone e carota. Basta essere una giovane donna con una sequela di ex di merda per riconoscere i piccoli ricatti morali.
Il tono di Terry muta. «Talia, ascolta… Conosco Faith da una vita: ti assicuro che ti sbagli di grosso su di lei. Ha avuto qualche problema con la giustizia in passato, è vero, ma ti assicuro che adesso è sulla buona strada».
«Terence,» questo sì che è un tono da mamma che riprende «io conosco gli uomini e so quando ragionano col cazzo invece che con la testa. Ti dico che questa Faith West ti farà passare un bel po’ di guai. Ti ordino di tagliare ogni rapporto con lei, per il tuo bene».
«Mi ordini?!» la voce di Terry è offesa, ma severa. «Ascolta, Talia, questa cosa non ha nulla a che vedere col nostro lavoro. Non prendo ordini sulla mia vita privata e quello che stiamo facendo è fuori da ogni protocollo. La ragazza ha già pagato il suo debito con la giustizia; nella nostra giurisdizione non ha fatto nulla di male e noi la stiamo sorvegliando senza uno straccio di motivo. Questa storia finisce qui, adesso».
«Ti stai mettendo contro di me?!»
«No, non sarò mai contro di te, ma basta con questa follia».
Nella casa piomba il silenzio. Non posso vederla, ma sono sicura che lo sceriffo Hester sia diventata rigida come una statua di marmo. Ho un brutto presentimento e sento uno strano prurito dietro la testa. Non resisto: mi sporgo per gettare uno sguardo, mentre la mia seconda vista si attiva quasi per istinto.
Mi prenda un colpo se quella che vedo non è una terribile testa di morto! Anche lo sceriffo è uno di loro! Non deve vedermi, o Terry sarà in pericolo. Arretro con le gambe che tremano. Risalgo le scale silenziosa, ma col cuore in gola. Mi sporgo dalla finestra sul retro e mi calo dalla tettoia. Devo allontanarmi da questa casa! Ora!
Jake Ferrell si agita su un piano di metallo nella vecchia segheria abbandonata. Nonostante la sua forza sovrumana, non è ancora riuscito a spezzare le catene che gli abbiamo messo per immobilizzarlo. Un po’ esagerato? Non si sa mai, con questi morti viventi: sono pieni di assi nella manica. Ora non gli resta che ringhiare offeso.
Io e Terry lo fissiamo, mentre parliamo a bassa voce per capire cosa fare di lui.
La cosa morta solleva il collo e ci guarda con occhi predatorî. Ha sempre sul volto quel suo sogghigno inquietante. È legato e prigioniero, eppure non cessa mai di comportarsi come se avesse lui il controllo della situazione.
«Tutto quello che state facendo… è inutile».
Ora ha la nostra piena attenzione.
Scatto davanti a lui come un cane che attacca: «Sei solo un bastardo. Vi distruggeremo tutti!» Terry mi trattiene e mi allontana dalla sua faccia.
Ride malvagiamente.
Ora è Terry che parla: «Jake… io ti conoscevo, prima che tutto questo accadesse. Non sei mai stato una persona cattiva. Perché volevi fare del male a Harriet?»
«Voi non capite. Io voglio che Harriet stia con me per sempre. Nel suo stato attuale è fragile, mortale. Io voglio donarle quello che loro hanno donato a me».
«Loro chi?» chiedo.
«Pensate di essere così furbi, ma in realtà non sapete niente. Non avete la più pallida idea di quello che sta succedendo in questa città».
«Se non parli, noi ti distruggeremo».
«Accomodatevi pure. Loro mi faranno tornare».
«Di chi stai parlando?» chiede Terry.
Ferrell è una tomba.
«Non andremo da nessuna parte» soggiungo. Guardo Terry con una luce assassina negli occhi. «Lo sai cosa significa questo?»
I suoi occhi si spengono. Abbassa lo sguardo.
Lo prendo per un “sì”. Mi avvicino alla vecchia sega circolare, completamente arrugginita. La aziono. Il suo rumore stridente riecheggia come un grido di disperazione, coprendo le urla spasmodiche di Jake Ferrell, mentre separo nettamente la sua testa dal torso. È un lavoro lungo e difficile – questi cadaveri ambulanti sanno essere dannatamente resistenti – ma alla fine cade a terra, pesante e inespressiva, estinta.
Terry ha guardato tutta la scena, e fissa le mie braccia spruzzate di sangue rappreso con paura e disgusto. So cosa sta pensando: anche io sono un mostro.
Non gli chiedo di fare nulla. Prendo quel che resta delle spoglie mortali del mostro che era Jake Ferrell, lo metto in un carrello di metallo e gli do fuoco con dell’olio per fiaccole.
Jake Ferrell, riposa in pace, se ci riesci.
Cammino con una parvenza di tranquillità per le strade di Black Mountain. Ho le mani nelle tasche della giacca di pelle per proteggerle dal freddo mattutino. Ho smesso di correre per non dare nell’occhio, ma il pensiero che anche lo sceriffo Talia Hester sia un morto vivente mi attanaglia. E non solo: mi sento in colpa anche per aver abbandonato Terry.
Mentre costeggio il distributore di benzina, passo davanti al diner. Alla vetrina c’è una donna avanti con gli anni di chiara ascendenza nativa americana che legge il giornale mentre mi lancia occhiate in tralice. Continuo a camminare. La sua attenzione ha lasciato la lettura per dedicarsi completamente a me: mi fissa senza dar cenno di voler smettere.
Mi giro esplicitamente verso di lei con uno sguardo da “Che cazzo vuoi?!”. Mi scruta ancora per un lunghissimo istante, come se mi stesse scandagliando l’anima, poi torna al suo giornale.
Mi volto. Quello che vedo mi fa sussultare per un istante. Davanti alla pompa di benzina, c’è un veicolo che si sta rifornendo e mi venisse un colpo se il proprietario non è Jake Ferrell. Ostenta “soltanto” un brutto ceffo e dei capelli lunghi e unti, ma io so cosa si cela sotto la sua maschera di normalità. Se lo sceriffo è uno di loro, non mi stupisce che sia ancora in libertà. In ogni caso, meglio così: se avessero tentato di catturarlo, qualcuno si sarebbe di certo fatto male.
Non sembra avermi riconosciuto e mi dà le spalle, il che mi regala qualche attimo prezioso per agire. Non avrò un’altra occasione così ghiotta. Non posso attaccarlo qui, davanti a tutti, ma c’è qualcos’altro che posso fare.
Alcuni pensano che siamo delle superarmi create dal governo, ma secondo me sono tutte cazzate. Il punto è che noi cacciatori, dal momento della nostra infusione, riceviamo dai Messaggeri alcuni doni particolari: dei “vantaggi”. Io ne ho uno molto diretto: posso rendere incandescenti gli oggetti prima di sbatterli in faccia ai “cattivi”. Molto utile, terra terra; ma c’è di più.
Metto una moneta nel distributore automatico dei quotidiani e ne prendo uno. Lo alzo ad altezza volto, fingendo di leggere, mentre vado nella direzione di Ferrell. Lo urto simulando distrazione, mi scuso. Il mio giornale cade. Fa il gentile, lo stronzo: lo raccoglie e me lo porge, con un accondiscendente «Faccia attenzione, signorina». Quel che importa è che non sembra avermi riconosciuta, e che sono riuscita a toccarlo.
Mi allontano. Caro Jake Ferrell, ora ti ho in pugno.
Una lama di luce ferisce i miei occhi cisposi che, infastiditi, si aprono. Sento nella bocca il sapore ruvido e amaro del sangue rappreso. Sono in un letto, con le coperte tirate su. Nella stanza c’è anche una poltrona: il vicesceriffo Terence Gray dorme scomposto su di essa; mi fa la guardia. Ora la riconosco: è la camera da letto di Terry. Sento ancora il nostro odore attaccato alle pareti. Ma forse è solo una mia impressione.
Mi ricordo della mia ferita. Scosto le coperte: sul mio basso ventre, vedo una grossa fasciatura con quattro macchie di sangue coagulato. Faccio una smorfia. Istintivamente, mi porto una mano su di essa. La tocco: non mi fa male. Incredula, comincio a muovermi: voglio alzarmi. Non mi fa male.
Faccio troppo casino. Terry si sveglia di colpo. Mi vede, si alza in piedi, viene verso di me. «Come stai?» dice, preoccupato.
«B-bene» sussurro. «Terry… cos’è successo? Come sono finita qui? L’ultima cosa che ricordo…»
«Quando lo sceriffo Hester se n’è andato, mi sono accorto che eri sparita» mi interrompe. «All’inizio, ero molto preoccupato, poi mi sono ricordato come sei fatta…»
Come sono fatta?! penso. Ma ha ragione: l’ho mollato là da solo, e non è la prima volta. Mi lamento tanto di come gli altri mi trattano, ma sono io la prima a crollare quando le cose si mettono male.
«Mi sono comunque messo a cercarti in città» Terry continua. «Non so bene cosa sia successo, ma ho cominciato a vedere una strana traccia di fumo rosso. Mi chiamava a sé con la stessa forza di quando vedo loro, quelle cose…
«Poi ha cominciato a far buio, ma io ho continuato a seguire la pista, sono finito nel bosco, ho visto il furgone di Ferrell. Quando sono arrivato, ti stava aggredendo.
«Non so bene come, ma ho cominciato a urlare e lui si è allontanato. Era come se volesse farci a pezzi, ma non poteva… Sono stato bravo: non ho avuto paura. Sono rimasto là, fermo. Quando ho tirato fuori la pistola, se l’è filata. Volevo chiamare un’ambulanza ma, mentre ti tamponavo la ferita, ho sentito come un grande calore passare da me a te e ha cominciato a rimarginarsi lentamente.
«Allora ti ho tirata su e ti ho portata qui. Ho chiamato il dottor Allen, un mio amico. Non sai che fatica schivare le sue domande… alla fine ha detto che sei stata fortunata. Se solo avesse visto quella ferita all’inizio…»
«Terry, c’è una cosa che devi sapere…»
«Sì, lo so: è quasi del tutto guarita. Ti ho rifatto la medicazione meno di un’ora fa».
«No, non è questo che intendevo. Lo sceriffo Hester: è una di loro!»
L’espressione di Terry cambia. Ora ha paura.
«Sei completamente impazzita?! Come ti è venuto in mente di coinvolgere una civile?» Stavolta Terry è arrabbiato.
«Ma sentiti: “una civile”! Perché, io cosa sono?»
«Sei un’incosciente, ecco cosa sei! Questa donna ha già rischiato la sua vita una volta. Non c’era bisogno di coinvolgerla di nuovo in questa storia».
«Questa donna si chiama Harriet Ferrell e odia quando la gente parla come se lei non fosse presente, vicesceriffo Gray» interviene Harriet.
«Le chiedo scusa, signora Ferrell…»
«Chiamami Harriet».
«Va bene. E tu chiamami Terence».
«Va bene, Terence».
«Faith, non dovevi coinvolgere Harriet in questa faccenda. Dovevamo vedercela noi».
«Mi sembra che questo tu lo abbia già detto. Si è incantato il disco?»
Terry fa un’espressione contrariata. Poi riprende: «Hai detto che noi siamo “speciali”, che siamo stati infusi dal potere dei Messaggeri, che possiamo vedere i mostri, che possiamo combatterli… Devo pensare che anche Harriet sia una di noi?»
«Non esattamente».
«E allora perché le hai detto tutto?»
«Terry, il mondo non è bianco o nero: è più complesso di così! Harriet era presente durante la tua infusione, ma non ha risposto alla chiamata: è consapevole dell’esistenza dei mostri, ricorda tutto, ma non ha i nostri stessi poteri».
«Aspettate un secondo!» interviene Harriet «Non ci sto capendo niente…» conclude sconsolata.
Mi prendo qualche minuto per chiarirgli di nuovo i concetti base: i Messaggeri, l’infusione, la caccia, gli astanti… Harriet sembra ancora più spaesata di prima. Ma conosco quell’espressione; è una persona intelligente: dobbiamo solo darle il tempo di processare il tutto.
«Ho capito, ho capito…» riprende Terry. «E, adesso che siamo in tre, che si fa? La nostra indagine è giunta a un vicolo cieco…»
«Non esattamente» dice Harriet. «Faith mi ha detto che lo sceriffo è uno di loro».
Terry abbassa lo sguardo. Io annuisco.
«Bene, io so dove si ritrovano per fare le loro cose».
«Dici davvero?» soggiungo.
«Che cosa sarebbero “le loro cose”?» chiede Terry.
«Non te lo so dire di preciso, ma hai presente la vecchia chiesa evangelica, sulla collina vicino ai boschi?»
Terry annuisce.
«Ecco, è lì che si trovano. Non veniva più usata da anni e annorum, ma adesso la chiamano “la Chiesa della Resurrezione”».
«Fantastico! Di certo non hanno il talento per l’originalità dei nomi» commento sarcastica.
«Allora che si fa?» chiede Harriet.
Terry prende l’iniziativa: «Ci prepariamo e andiamo a vedere cosa succede lì». Poi preleva il revolver dal cassetto della sua scrivania e inizia a caricarlo.
«Non ti facevo un fan del secondo emendamento» commenta Harriet.
Terry si rabbuia. Finisce di caricare la pistola ed esce da casa sua senza aggiungere nulla.
Harriet mi guarda interrogativa. «Ho detto qualcosa di sbagliato?»
«Terry non caricava mai la pistola, prima che tutto questo accadesse».
De terra venimus, in terram redimus, de terra renascimur… De terra venimus, in terram redimus, de terra renascimur…
È notte fonda. Sono fuori dalla cosiddetta Chiesa della Resurrezione di Black Mountain, ma quella che vedo è solo una vecchia chiesa evangelica di legno, con le assi fatiscenti, in mezzo ai boschi e all’erba alta.
Però, i miei occhi, e quelli di Terry e di Harriet, sono grossi e spalancati. Hanno paura. Nelle nostre orecchie, riecheggia il suono di quelle che sembrano mille voci, quasi come se prorompessero dal cuore della terra.
De terra venimus, in terram redimus, de terra renascimur… De terra venimus, in terram redimus, de terra renascimur…
«Che cazzo stanno dicendo?» rompo il silenzio.
«Dalla terra veniamo, alla terra ritorniamo, dalla terra rinasciamo» dice Harriet.
Io e Terry siamo sgomenti. «E tu come lo sai?» dice lui.
«La mia alma mater è stata la Duke University. Antichità classiche» dice Harriet, con voce orgogliosa.
“Laureata in Antichità classiche alla Duke University e lavora come cameriera nel diner di Black Mountain, stato di Washington” penso. Il sogno americano fa schifo.
«Non mi piace per niente» dico. «Facciamo così: adesso provo ad avvicinarmi per vedere chi sono».
Annuiscono. Io lascio l’erba alta, nella quale eravamo accovacciati, e vado verso la struttura di legno. Procedo con fare furtivo fino alle finestre sporche.
Dentro l’edificio, ci sono alcune decine di persone. Hanno addosso delle tuniche di color rosso scarlatto. La struttura è illuminata da una serie di lanterne a olio: alcune sono appoggiate per terra, altre sugli scheletri degli arredamenti rimasti, altre ancora sono portate a mano. Sfortunatamente sono tutti incappucciati, ma ripetono sempre la stessa identica litania:
De terra venimus, in terram redimus, de terra renascimur… De terra venimus, in terram redimus, de terra renascimur…
Le parole in quella lingua antica e inaccessibile rimbombano nella mia testa come un martello pneumatico. Quasi per istinto, attivo la mia seconda vista per difendermi dal male che stavo sentendo alle tempie.
Ora le cose vanno un po’ meglio. Persino i dettagli sembrano più nitidi, nonostante il buio. Da sotto il cappuccio di una delle figure, riconosco le fattezze cadaveriche dello sceriffo Talia Hester. Nulla di nuovo.
Ma non è questo che mi spaventa. No, perché il volto della figura apicale di questa congrega, l’officiante di questo oscuro rito, mi si svela. Sono le sembianze mortifere del sindaco, Efrain Kemp. Sotto il suo cappuccio, risalta un ghigno maligno che sembra essere rivolto proprio a me.
Arretro senza volere. Le mie scarpe incespicano sul pavimento sopraelevato di assi. Si ode uno scricchiolio lamentoso.
La cerimonia si interrompe. «Cos’è stato?!» esclama qualcuno dall’interno.
Anche Terry e Harriet se ne sono accorti. Infatti, si sono alzati e mi fanno segno di andare verso di loro. Faccio prima che posso. Ci voltiamo per scappare verso la foresta ma, all’improvviso, una figura incappucciata di scarlatto ci si para innanzi.
Sono già pronta a farle del male, ma dalla sua bocca insondabile prorompe un: «Se non volete morire, seguitemi».
Senza fiatare, non sappiamo neanche noi perché, la seguiamo nel fitto del bosco.
È notte fonda a Black Mountain. Per la strada principale, non circola un veicolo, non si vede anima viva. La lanterna semaforica lampeggia inutilmente al centro dell’incrocio. O, forse, non inutilmente, visto che almeno segnala che un incrocio c’è e che bisognerebbe moderare la velocità, preparandosi a dare la precedenza a eventuali veicoli provenienti da destra.
Il fatto è che sono seduta all’interno del diner da circa dieci minuti e, da quando sono entrata, di veicoli non ne è passato neanche uno. E nemmeno sono passati quando ho attraversato il paese a piedi. “Complimenti per la tua sagacia, Faith!” Sì, sento la vostra voce che si complimenta con me perché ho appena realizzato che, in un paese di tremilacinquecento anime della provincia del Nordovest, pochi minuti prima delle due di notte, non circoli anima viva.
L’ultimo turno è quello di Harriet. Sì, Harriet Ferrell, la moglie del due volte morto Jake. Terry era visibilmente disturbato, dopo quello che abbiamo fatto. Che ho fatto. Ho deciso di lasciargli un po’ di tempo per sbollire, per razionalizzare l’accaduto, per cullarsi un po’ tra i suoi pensieri. E, poi, sono venuta al diner, per vedere Harriet.
Forse mi sento in colpa per averle ucciso il marito… Ma chi, lo stesso marito che aveva tentato di ucciderla, se solo non fosse stato per l’intervento mio e di Terry? Quella cosa morta del cui sangue coagulato si sono insozzata le mie mani? È mai possibile che io provi rimorso per avere ucciso uno zombi? Per aver privato questa donna di un marito che era già morto per cause naturali e che è stato resuscitato da qualunque cosa stia accadendo a Black Mountain?
Harriet non è stupida: si è accorta che la sto fissando. L’ultimo cliente esce dal diner. L’ultimo a parte me, voglio dire. Sembra che Harriet abbia aspettato questo momento con bramosia, perché adesso si avvicina a me.
Si guarda attorno, assicurandosi che non ci sia nessuno a parte noi, poi balbetta: «Tu sei quella donna che mi ha salvata insieme al vicesceriffo Gray…»
Dunque, si ricorda! Com’è possibile?! Di solito, le persone attaccate dai mostri tendono a razionalizzare o a rimuovere gli eventi che li coinvolgono. Ecco come mai l’umanità è rimasta inconsapevole della loro esistenza fino ad oggi.
«Lo sceriffo Hester mi ha detto che ti chiami Faith West. Ha detto anche che sei una poco di buono e che non mi devo fidare di te…»
I miei occhi vibrano.
«… ma io non le credo. Loro pensano che io sia confusa, che non ricordi bene, ma io ricordo perfettamente cos’è successo. Ricordo di aver seppellito Jake e ricordo di averlo visto tornare. Era cambiato… diceva delle cose orribili. Mi ha spiegato cosa voleva farmi, che voleva uccidermi, portarmi con lui in questa nuova vita. Sono scappata e lui mi ha seguito, e poi voi mi avete trovata…»
«Com’è possibile, Harriet? Come fai a ricordare tutto?»
«Non lo so. So solo che, quando questo è accaduto ho sentito un potere, una voce parlarmi. Mi ha spronato a reagire, ma io ho avuto paura e non l’ho ascoltata. Volevo solo salvarmi la vita… Quando mi sono ripresa, ho ricordato tutto, e ho avuto ancora più paura. Ma, quel che è peggio, mi sono ricordata tutte le cose che avevo visto prima. C’è qualcosa di terribile in questa città! Tu e Terry siete diversi: voi potete sentire le voci, lo so. Voi dovete fare qualcosa!»
La donna scoppia in un pianto isterico. La prendo tra le mie braccia per calmarla. Sento le sue lacrime che bagnano il cotone della mia maglietta, inumidendomi la pelle.
Li chiamano “astanti”. Sono coloro che odono la chiamata dei Messaggeri, ma non le rispondono. Non vengono infusi dal loro potere: non diventano cacciatori, ma continuano a mantenere la consapevolezza che i mostri esistono, anche se sono completamente lasciati a loro stessi. I Messaggeri non danno seconde possibilità, a quanto pare.
Le accarezzo i capelli come se fosse una bambina da rassicurare. «Non ti preoccupare, Harriet. Sistemeremo tutto. Te lo prometto».
La luce della luna, di tanto in tanto, filtra tra gli alberi e sparge lame di luce che ci emancipano dalla cecità notturna. La figura scarlatta ci conduce fino a una stamberga nel fitto della foresta: una di quelle catapecchie di legno che sembrano essere una vecchia casa di streghe.
Spalanca la porta, che scricchiola dolorosamente, entra, si gira verso di noi e ci fa segno di entrare a nostra volta. Posso sentire la paura che fa tremare le vene e i polsi di noi tutti. Sorprendentemente, forse per mostrarsi detentrice di un coraggio che in realtà non possiede, Harriet si fa avanti ed entra. Io e Terry la seguiamo silenziosi, dopo esserci scambiati uno sguardo.
La figura incappucciata solleva le braccia. Alla mia seconda vista, sono braccia consunte, vecchie, raggrinzite, rattrappite, morte. Sotto la pelle, una tempera di sangue estinto sembra dipingere tutto di cruore rappreso.
Le braccia scheletriche sollevano il cappuccio, e un volto orripilante si stampa nel profondo della mia mente, penetrandomi il cuore. Non è la sua bruttezza a spaventarmi né la sua deformazione. No: è la crudele consapevolezza che il volto che mi sta guardando è quello che un tempo fu di mia nonna Kaitlynn. Della mia nonna morta!
Il cuore mi schizza in gola, e tutto il mio mondo comincia a girare, mentre sento che le braccia di Terry mi sorreggono.
«Sapevo che sarebbe stata dura per te, Faith…» sussurra la voce avvizzita ma commossa della cosa morta, ladra di sembianze.
Mi riprendo velocemente. È la tempra mentale dei cacciatori che mi assiste, l’ennesimo dono dei Messaggeri: i nostri patroni in questa missione.
«Nonna… Cosa le hai fatto?!» sbotto verso la rediviva. Quest’empia nosferatu incarnante l’immagine oscena di mia nonna.
«Faith… io sono Kaitlynn. Io sono tua nonna!»
«Come possiamo crederti?» chiede Terry. «Tu sei una di loro! Sei vestita come loro! Eri tra loro, poco fa».
La donna-lemure davanti a noi comincia a lacrimare, mentre dice: «È vero… io sono una di loro. Ma non è come pensate. Non tutti a Black Mountain sono come loro, anche se sono… tornati dalla terra».
«Ma come possiamo crederti?» chiede Harriet.
«Vi ho portati al sicuro prima che potessero trovarvi» dice l’impostora con la voce di mia nonna. «Qui non vi troveranno mai».
Se il mio sguardo potesse sprofondarla tra le fiamme dell’inferno, lo farebbe.
E anche lei deve sentirlo perché, scoraggiata, conclude: «So che non mi credete. So che è difficile. Se verrete con me, per un’ultima volta, vi dimostrerò che dico il vero».
Harriet e Terry mi guardano, come a cercare conferma. Sono la leader di questo gruppo improvvisato di cacciatori, a quanto pare. Ma no, non mi fiderò mai di questa creatura.
Sto per ricorrere alle misure drastiche, quando la voce dei Messaggeri rimbomba nella stamberga. Terry sgrana gli occhi: questa volta li ha sentiti anche lui! Non Harriet, chiaramente. D’altra parte, come potrebbe lei, che è fuggita dall’infusione?
Cosa ci hanno detto?
Ascoltatela.